Le città ci appaiono spesso piene, e anche diverse. Ci ritroviamo a camminare su quel cemento e a non riconoscerci: sappiamo davvero cosa possa far cambiare questa sensazione che ci portiamo dietro come se fosse un vestito? Sappiamo davvero camminare e continuare a sorridere?

Le città sono spesso fatte di un caos inspiegabile, che quasi ci impietrisce e spessi ci terrorizza. Restiamo impassibile a guardare scorrere le mura del nostro tempo e, come se fosse una casa da abitare, ci sediamo sul terriccio e lì restiamo. Siamo soli: ma com’è possibile? Cosa significa ‘solitudine‘ e cosa vuol dire diventare chi non siamo mai state?

Queste domande sono nate nella mia mente qualche giorno fa, quando ho preso tra le mani le pagine di un libro differente ma comunque meraviglioso. Si tratta di ‘Solitudini urbane‘ di M. Evelina Buffa Nazzari (Porto Seguro Editore). “Ma perché differente?“, vi chiederete. Lo è per svariate ragioni. In primis, perché è un’apparenza di sensazioni (sì.. leggendo le prime pagine, ne ho avute parecchie!). Nel corso della lettura, ognuna di quelle sensazioni che avevo sentito si sono però trasformate in qualcos’altro, in qualcosa di ancora più profondo. Così non potevo di certo fermarmi: ho continuato a leggere e ho cercato insistentemente la punta dell’iceberg. Giù, fino in fondo e fino alla fine.

Questo libro è una serie di racconti ma, in fondo, non lo è affatto: non lo è perché si ha l’impressione di vivere davvero in quel condominio un po’ strambo. Numerose voci – ma che dico ‘numerose‘, Migliaia. Migliaia di voci che urlano tutte insieme, ognuna con un dolore diverso. Sì, perché il dolore c’è ed è ovunque: come anche la rassegnazione, la paura, l’amore, il coraggio. E la vita: la realtà dell’esistenza. C’è quello che non ci aspetteremmo mai; eppure, quelle pagine continuano ad avere tutto e continuano a cercarlo incessantemente. Come se non bastasse un libro per spiegare quello che prova l’autrice: quasi si va in fondo a tutto, in fondo al suo cuore e al suo animo.

Ho terminato la lettura con mille domande ma, a lei, ne ho fatte solo qualcuna. Ma a tutto quello che le ho chiesto, mi ha risposto con la stessa delicatezza e semplicità di cui è impregnato il suo libro.


“Solitudini urbane”: è questo il nome del suo nuovo libro. Da dove nasce l’idea per questo titolo e, soprattutto, cosa pensa che possa scaturire la solitudine nelle città che abitiamo?

Ho vissuto tanti anni in campagna, dalle finestre si vedevano alberi, fiori, tanto verde e qualche pecora. Arrivando in città, a vent’anni, ne ho scoperto il fascino e una nuova curiosità, quella di guardare, dalla mia finestra, le finestre illuminate degli altri, la sera: letti sfatti, tavole imbandite o trasandate, fornelli accesi sotto pentole di minestrone… Immaginare le storie degli esseri umani che mi circondavano mi emozionava. Più delle pecore che gravitavano intorno alla mia casa di campagna, così isolata. Dirò una banalità: in campagna, un tempo, vivevano grandi famiglie patriarcali e, fra generazioni, ci si aiutava, si contava l’uno sull’altro. Questa è la visione, non totalmente sbagliata, ma retorica. Quante persone (e penso principalmente alle donne) avrebbero voluto liberarsi da quella rete di solidarietà fatta, anche, di costrizioni? La parola solitudine non ha, necessariamente, un’accezione negativa.

Il suo è senz’altro uno stile semplice, ma allo stesso tempo profondo e colmo di significato. C’è una ragione precisa che ha portato la sua penna a prendere questa direzione?

Ho scoperto la scrittura dopo un grave lutto. Ho scoperto quanto fosse terapeutico scrivere e confinare altrove il proprio dolore. Più terapeutico del mio lavoro ufficiale di attrice. Ho cominciato con Dopo la fine, sul mio percorso di lutto e poi ho scritto due testi teatrali racchiusi in un volumetto che si intitola Altrove e una specie di “mémoire”, Spesso sono arrivata seconda. E’ stato un esercizio utile.

Tante storie, innumerevoli personaggi: ognuno alle prese con un pensiero – e spesso con un dolore – diverso. C’è una storia da lei raccontata, a cui è particolarmente legata?

Amo alcuni personaggi più di altri. Magari sono persone che ho incrociato e sulle quali ho ricamato. Ma cerco di essere magnanima anche con i meno simpatici.

Nel leggere le sue pagine, ho avvertito sensazioni differenti e tutte colme di significato. Soprattutto però, ho sentito di appartenere ad ognuna di quelle storie e persone. Era questo il suo intento iniziale? Dare l’idea al lettore di essere anch’egli parte integrante di quella palazzina?

Sì, sono contenta di aver suggerito questa sensazione. Siamo tutti parte dell’universo, della terra, suddivisa in continenti, paesi, città, agglomerati di case, condominii. Mi emoziona il pensiero della moltitudine di esseri umani che popolano il nostro mondo. Sembriamo tutti formiche che si agitano, ma queste formichine hanno tutte (nessuna esclusa!) una vita complessa, sentimenti contrastanti, persone care. Sì, abitiamo tutti in quel condominio e abbiamo tutti una storia da raccontare.

Tutto ha inizio da un buco nel pavimento: un problema che mette a repentaglio l’intero condominio e che fa divorare tutti in una profonda voragine (più psicologica, che fisica). Dov’è nata questa idea?

Il buco è una metafora, ovviamente, e non sempre compare nel racconto. Serve a far capire che tutte queste persone vivono nello stesso condominio, e che qualcosa (semplicemente l’essere in vita e continuare a palpitare?) li accomuna. Forse l’idea mi è proprio venuta quando, in uno dei condomini in cui ho abitato anni fa, hanno fatto dei lavori nelle tubature dell’intero palazzo. Poi l’idea ha lavorato e ha preso una forma.

Crede che si possa riuscire a sconfiggere la solitudine presente nella società?

Non credo. La solitudine è profondamente insita nell’animo umano. Ci sono situazioni in cui siamo soli e non possiamo che essere soli, in cui nessuno ci può veramente aiutare e dobbiamo attingere al nostro bagaglio personale di strumenti per la sopravvivenza: anche in questo caso non c’è giustizia, chi ne ha di più (per merito o fortuna) chi di meno. E poi la solitudine non è sempre una condizione negativa. C’è anche chi ne ha bisogno. Può essere bello isolarsi sapendo di avere altri esseri umani intorno. Alcuni disposti ad aiutarci, altri profondamente egoisti. Ma anche in loro c’è sempre un pertugio di umanità che può aprirsi. Sono un’ottimista. Cioè, mi definisco una ex ottimista!

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Parlando un po’ di lei, durante la sua lunga carriera, qual è stato il momento in cui si è sentita più soddisfatta professionalmente parlando?

Faccio un lavoro (ma forse sono tutti così?) in cui non si arriva mai al traguardo. Il teatro e il cinema rappresentano la vita. E con un po’ di fortuna si può, potenzialmente, lavorare fino alla fine. Ci sono alcuni spettacoli a cui sono legata, per motivi diversi, e che credo di aver fatto bene (La bottega del caffè, La deposizione, Maria Antonietta, Torna fra nove mesi, Ventiquattr’ore della vita di una donna). Ogni personaggio ti fa capire qualcosa di te. Anche personaggi minori in testi poco interessanti. E’ come fare un percorso iniziatico. Ma non credo di essere mai stata totalmente soddisfatta di come avevo svolto il mio lavoro. In teatro è bello e frustrante al tempo stesso. Anche se senti di non aver raggiunto la perfezione (la tua, ovviamente, ognuno ha i propri limiti) hai sempre la possibilità di fare meglio la sera dopo.

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Come sta gestendo la promozione di “Solitudini urbane”? Quali sono i suoi futuri progetti?

Sono in un momento di grande energia, e cerco di approfittarne, perché con l’umore non si sa mai. Vorrei organizzare una serata in cui promuovere i libri che mi stanno più a cuore: Dopo la fine, Altrove, Spesso sono arrivata seconda e l’ultimo nato, Solitudini urbane, annunciando anche la ripresa di Torna fra nove mesi, il mio testo teatrale andato in scena qualche anno fa e che non posso abbandonare. Colpa del covid che ci ha tenuto costretti o degli anni che passano e non ritorneranno? Uno po’ entrambe le cose.

Recensione e intervista a cura di Stefania Meneghella

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