Lo scrittore spagnolo pluripremiato Pablo D’Ors torna in libreria con il suo nuovo romanzo Contro la gioventù (edito da Arkadia Editore e tradotto da Alessandro Gianetti). L’autore parla di gioventù, ma lo fa in un modo rivoluzionario e ribaltando i canoni che ci eravamo fino ad ora prefissati in questa società. I giovani, per quanto tali, non sono ancora sé stessi: cercano in ogni modo di aggrapparsi a una vita migliore per scoprirsi (e riscoprirsi), per accettare quelle parti di sé non ancora formate. Per attendere una maturità, che arriverà con l’avanzare con l’età: la storia di D’Ors – che vede come protagonista Eugen Sallman – è soprattutto un monito e un esempio per tutti coloro che appartengono a questa era giovane, e ne fanno tesoro trasformandola spesso in una risorsa.


Com’è avvenuto il tuo primo approccio alla scrittura? Quando hai scoperto che sarebbe stata la tua strada?

L’ho sempre saputo. All’età di 8 o 9 anni ero già un lettore esperto. A 12 o 13 anni avevo già scritto una lunga raccolta di poesie. A 13 anni scrissi il mio primo tentativo di romanzo. A 14 anni vinsi il mio primo premio letterario, per racconti, a scuola. Ho passato la vita a scrivere. A 29 anni decisi che questa vocazione, così violenta, non sarebbe rimasta un sogno, ma che sarebbe diventata una professione, una realtà. E cominciai a scrivere ogni giorno, come chi va in miniera. Le due cose che ho fatto di più nei miei 58 anni di vita sono state leggere e scrivere.

Parliamo del romanzo Contro la gioventù: dove nasce l’idea per questo libro e qual è il messaggio principale che vuoi trasmettere?

Un romanzo non vuole trasmettere alcun messaggio. Se qualcuno volesse trasmettere un messaggio, lo direbbe in modo diretto, non scriverebbe un romanzo. Un romanzo è qualcosa di particolare: non trasmette messaggi e non può essere riassunto. Se viene riassunto, non è più un romanzo, ma una sinossi. Contro la gioventù è il mio primo romanzo, scritto tra il 1994 e il 1996. Solo che allora s’intitolava La mirada lateral (Lo sguardo laterale) e, ovviamente, fu rifiutato da tutti gli editori a cui lo sottoposi. Dico “ovviamente” perché era estremamente brutto. Parla della mia esperienza a Praga, perché anch’io ho vissuto in quella città, come il protagonista della riscrittura che è Contro la gioventù. Parla del narcisismo della giovinezza, quella fase di permanenti prove ed errori.

Un romanzo, il suo, che parla di quello che i giovani vorrebbero più di tutto: il possesso amoroso. Come definisci la gioventù odierna e i giovani di questo periodo storico?

Non conosco bene i giovani di oggi, non ho molti contatti con loro. Non è una scelta, sono le circostanze della vita. Per oltre cinque anni però ho lavorato all’università e ho potuto star loro vicino. Quando si è giovani, si soffre molto di più di quanto si pensi. Tutto è ancora da definire, e questa mancanza di definizione spesso produce ansia. Il bisogno sessuale esplode in tutto il suo splendore e non si è ancora arrivati a capire cosa sia l’amore. Questo crea una certa disfunzionalità tra i bisogni fisiologici e la maturità affettiva, essenziale ma ancora inesistente. Mi sembra che questo caratterizzi i giovani di oggi e di tutti i tempi; suppongo che sia qualcosa che appartiene alla condizione umana.

Tra le tue pagine, parli di Franz Kafka e Milan Kundera: loro sono stati i tuoi maestri letterari? Quanto ti hanno ispirato nella costruzione del tuo stile?

Sì, ho imparato molto da loro, anche se, a onor del vero, dovrei aggiungere Hermann Hesse e Stefan Zweig, almeno in gioventù, e, da adulto, naturalmente, John Williams e János Székely, oltre a J.M. Coetzee, che insieme a Philip Roth è il padre di tutti i narratori contemporanei (in particolare, di quelli che non hanno ancora trovato la propria voce). Da Kafka ho imparato la letteratura come religione, la narrazione non psicologica, non storica, narrazione e basta: fidarsi della penna, lasciar parlare l’anima, lanciarsi a raccontare la stranezza della condizione umana. Da Kundera ho imparato, naturalmente, l’umorismo e la composizione: quelle che lui chiama “variazioni sullo stesso tema”, gli ego immaginari, la combinazione esplosiva di ridicolo e sublime. È un peccato che Kundera non si sia fermato ai suoi primi cinque titoli. Tutti quelli che li hanno seguiti sono un progressivo declino fino ad arrivare a La festa dell’insignificanza, che è orrendo.

TELVA 946 FEBRERO 2018/ TIEMPO LIBRE LIBROS/ GENTES

Il protagonista è Eugen Salmann: quanto c’è di te in lui? Cosa ti ha insegnato più di tutto questo personaggio?

Eugen Salmann, un personaggio che unisce mio nonno Eugenio e il mio maestro Elmar, rappresenta il peggio di me, così come Charles de Foucauld, il protagonista del mio romanzo L’oblio di sé, rappresenta il meglio. I personaggi, in particolare i protagonisti, sono spesso esorcismi dei loro autori. Così come il mio romanzo Entusiasmo racconta la travagliata formazione del sacerdote, Contro la gioventù racconta la quasi altrettanto travagliata formazione dello scrittore. Io sono entrambe le cose, ero entrambe le cose. Adesso non sono più entrambe le cose, per fortuna sono uno solo. Immagino di aver dovuto passare attraverso Eugen Salmann e Charles de Foucauld per arrivare a essere Pablo d’Ors. Spesso ci costa tutta la vita diventare ciò che siamo.

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Quali sono i tuoi futuri progetti letterari? Puoi anticiparci qualcosa?

Sì, sto scrivendo racconti lunghi, lunghi come quelli della mia raccolta intitolata Il debutto, o anche di più. Mi diverto molto scrivendoli. Sono storie mistiche e comiche, un po’ nello stile di Italo Calvino. Credo di scrivere ciò che ho sempre voluto scrivere. Dopo cinque anni dedicati alla saggistica (mi riferisco a Biografia della luce), sono tornato alla narrativa, che mi rende molto più felice. La gioia della creazione letteraria è ben lontana da quella che produce la riflessione, per quanto necessaria possa essere.

Intervista a cura di Stefania Meneghella

Traduzione a cura di Alessandro Gianetti

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