Prossimo e Remoto (peQuod editore) è il nuovo potentissimo libro di Eleonora Rimolo, un’autrice che ho scoperto casualmente e che mi ha trasmesso sin da subito tutta l’energia e la determinazione di cui è fatta la sua poesia. Mi ha trasmesso anche quella forza e quel coraggio che spesso ci manca, o che semplicemente vogliamo gettare fuori dalla nostra vita.

La poesia di Rimolo è dunque una poesia che parla: lo fa con parole semplici, ma che conservano dentro di loro un gigantesco impatto emozionale. Si parla di esseri umani, nel suo nuovo libro, ma soprattutto di relazioni, di emozioni, semplicemente di esistenze volte a crearne altre. Si parla di legami, e di quel tempo nel quale ci siamo buttati a capofitto e di cui non possiamo a volte farne a meno. Il volume si divide in tre differenti dimensioni: Microcosmo, Isola e Macrocosmo. Tre mondi, questi, che potrebbero apparire distanti anni luce dai nostri corpi: “dove sono?, si chiede il lettore. Basterà procedere con la lettura, per comprendere ogni cosa: è proprio la nostra anima, ad essere composta di questi tre luoghi. Siamo noi che, incessantemente, ci guardiamo interiormente e pensiamo a quanto grande possa essere ancora la nostra vita. Nella psiche che costruisce le nostre identità, continuiamo a perderci e ritrovarci: a farlo senza via di fuga e a continuare, senza tregua, questa continua lotta verso la ricerca di noi stessi.

La poesia di Eleonora Rimolo mi ha portato verso questa nuova consapevolezza: il poter ritrovarmi sempre e comunque, pur restando in solitudine, pur restando soli da noi stessi. E’ potenza, il suo libro: è potenza pura e trasparente. Ed è anche vita vera: prossimo e remoto. Due tempi diversi ma che possono unirsi in un unico mondo. Che possono unirsi anche a noi che vogliamo, ogni giorno di più, continuare a vivere nel nostro luogo (fatto di sogni, amori, passioni, sacrifici, gioie, dolori, fatto semplicemente di vita).


Com’è avvenuto il tuo primo approccio alla poesia? Quando nasce questa passione?

È una passione che ho sempre avuto fin dall’infanzia: quando ho iniziato a frequentare la prima elementare, ero affascinata dalle filastrocche che le maestre ci facevano trascrivere e imparare a memoria. Il suono delle rime, il ritmo delle parole, erano per me come musica. Iniziai a scrivere piccole poesie in rima su un quadernetto, che poi portavo alle maestre. Negli anni, la poesia mi ha sempre accompagnato, anche nei brevi momenti in cui mi sono dedicata alla scrittura di racconti: studiavo con passione la letteratura italiana e compravo libri di poesia, soprattutto novecentesca. A 18 anni ho iniziato a pensare ad un primo libro di versi: da quel momento non ho più abbandonato lo studio e la scrittura poetica, associandola all’impegno militante – con la direzione della rivista di poesia Atelier e, da un anno, con la direzione delle collane di poesia Letture Meridiane ed Aeclanum per la Delta3 Edizioni.

Chi sono i tuoi maestri letterari? A chi ti sei ispirata per la costruzione del tuo stile poetico?

Ho sempre amato la letteratura italiana che va dalla seconda metà dell’Ottocento fino alla contemporaneità: quando frequentavo la scuola, essendo maggiormente vincolata allo studio della materia, adoravo Leopardi, Pascoli, D’Annunzio, i crepuscolari e Montale. Quando ho iniziato a studiare la poesia autonomamente, mi sono legata a Pessoa, a Luzi, a Sereni, a Giudici, e ai contemporaneissimi Milo de Angelis, Mario De Benedetti, Stefano dal Bianco, e molti altri. Sento molto mia la loro tensione autenticamente lirica, ma apprezzo molto ultimamente anche una certa linea narrativa, prosastica, alla Fabio Pusterla, per esempio, o alla Luigi di Ruscio.

Parliamo adesso del tuo ultimo lavoro ‘Prossimo e Remoto’: dove nasce l’idea e qual è il messaggio principale che vuoi lasciare?

L’idea nasce da una riflessione maturata negli ultimi tre anni: credo fortemente che per riuscire a stare al mondo, e per stare al mondo intendo intrattenere rapporti sani con il prossimo, bisogna innanzitutto conoscere se stessi. La conoscenza di sé passa attraverso l’accettazione delle proprie debolezze e delle proprie fragilità, che non vanno rigettate o negate. Oggi è molto facile creare delle identità parallele che non rispondono a ciò che siamo davvero: sui social tutti mostriamo un’immagine edulcorata e parziale di noi stessi, e questo si riflette sulla vita reale, in cui siamo incapaci di relazionarci con l’Altro in quanto non siamo disposti a spogliarci delle nostre maschere o a cedere qualcosa di noi per far spazio ad un altro. Credo sia per questo che il “sistema coppia” sia in crisi, ad esempio, poiché non c’è più nessuna disposizione al sacrificio per l’altro o all’assunzione di un qualsiasi tipo di responsabilità sul lungo termine. Siamo cresciuti con l’idea che tutto sia sostituibile non appena inizia il processo di logoramento naturale di tutte le cose: per questo, nessuno pensa più al processo di invecchiamento, alla morte, alla caducità della vita e sta al mondo come se dovesse restare per sempre “giovane e invincibile” (pensiamo agli eccessi della chirurgia plastica, all’ossessione per il “ritocco” della nostra immagine digitale etc.) Il libro mostra quel che accade quando si vive come monadi incoscienti: impossibilità di condivisione, solitudine e senso di vuoto. Quel che dovrebbe essere prossimo, diventa inevitabilmente remoto e irraggiungibile, lasciando un senso di frustrazione e di insoddisfazione che sfocia o nella violenza o nell’abulia.

Il volume è diviso in tre parti: Microcosmo, Isola e Macrocosmo. C’è un collegamento tra queste tre dimensioni? Tu, dove sceglieresti di abitare?

Prossimo e remoto è un libro sulla possibilità di dire l’indicibile in poesia: le tre sezioni affrontano e indagano il viscerale, necessario bisogno dell’uomo di comunicare con i suoi simili (in Microcosmo, appunto, mi occupo di questo, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con gli ultimi, i dimenticati, i sommersi) con la natura che lo circonda e che fagocita (nella sezione Isola) e con il cosmo e i suoi infiniti misteri in Macrocosmo. Sarà il lettore a decretare se questo contatto tra mondi diversi e complementari produce o meno comunicazione e condivisione, se – e in quali casi – è appunto un’esperienza di prossimità o se quel che resta è la consapevolezza di trovarsi in una posizione remota e irraggiungibile da chiunque altro, di autismo e di monadismo. Tutte e tre le sezioni sono connotate da un senso di trasformazione delle cose drammatico, che continuamente vuole traghettare il lettore verso luoghi sconosciuti, in cui non si parla la lingua degli affetti, ma si ascoltano alfabeti intraducibili e terribili, che non ci permettono mai totalmente di costruire un ponte tra ciò che eravamo prima e ciò che siamo adesso. I protagonisti dei testi sono per lo più gli ultimi, gli emarginati, i diseredati: coloro con cui è ancor più difficile comunicare, condividere, essere veramente umani. Spesso parlo anche della famiglia: valore per me supremo e intramontabile, per cui vale la pena di essere responsabili e meno egoisti. Se potessi scegliere dove abitare, sceglierei assolutamente il Microcosmo: avere contatto con gli ultimi, con gli emarginati della società e con le loro storie, è un alto esercizio di empatia a cui non rinuncerei mai.

Il tuo stile è molto semplice ma esprime un grande significato. Com’è avvenuta la costruzione del tuo stile letterario? Hai sempre prediletto questo genere?

Inizialmente il mio stile aveva una curvatura più ermetica, che risultava per larghi tratti troppo respingente. Questa oscurità non è più opportuna in poesia: il poeta non è pura potenza creativa ma la sua ispirazione è palcoscenico di una tensione di forze opposte, azione e resistenza, scrittura e silenzio. L’arte non è una mera esecuzione ad ogni costo, non è solo “potenza-di” così come l’abilità non è solo perfezione formale ma innesto dell’imperfetto nelle forme stilisticamente perfette. Quando subentra inevitabile la necessità dell’opera, cioè quando la contingenza impone all’artista la sua realizzazione, la messa in atto della sua potenza creativa, allora si manifesta davvero un evento artistico: si scrive solo perché in quel momento non poteva proprio essere altrimenti, e obbedendo a questa accidentalità della creazione chi scrive si muove tra due impulsi in contraddizione, cioè slancio e resistenza. La conciliazione di questi elementi consiste nella manifestazione dello stile dell’opera che è conflitto individuale (resistenza personale all’espressione universale) ma anche elemento impersonale (potenza creativa, puro genio che spinge ciecamente verso la realizzazione dell’opera). È per questo che la poesia deve rigettare l’autoreferenza, cioè il rivolgersi autistico della potenza a se stessa senza curarsi della realizzazione dell’atto: ciò che rende grande la poesia e può ancora generare opere oggi è il fatto che essa, in questo gioco tensivo, non dice solo ciò che sta dicendo ma anche ciò che non dice e non può (non sa) dire, raccontando l’impotenza di dirlo, sospendendo ma insieme adoperando una lingua comprensibile, accessibile, che sicuramente tiene conto degli strumenti retorici, ma che è totalmente tesa alla condivisione di un’immagine chiara. Azione e inazione, quindi, lavorerebbero di concerto per generare la grazia, un vero e proprio spazio nel linguaggio in cui la lingua stessa mette a tacere le funzioni informative di un testo per aprire quest’ultimo ad un nuovo uso, ad un inedito universo di senso. In altri termini, Hugo sostiene che i poeti hanno dentro di sé un riflettore, l’osservazione, e un condensatore, la commozione. Non c’è poesia senza vita, e viceversa, soprattutto quando la collettività è chiamata quotidianamente a rispondere ad un numero cospicuo di esperienze che ci vedono sì in prima persona protagonisti attivi, ma a cui dovremmo rispondere collettivamente. La poesia deve quindi oggi spingere ad una riflessione comune, a dei motus animi collettivi, insomma ad un qualsiasi sommovimento dello spirito che possa restituire la voce ad un mondo ora embrione, in attesa di nuova linfa, scongiurando il pericolo di piombare in un’“esistenza inautentica”, come la chiamerebbe Heidegger, perché completamente inaderente alla nostra autonoma ricerca del bello e della felicità.

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Nella postfazione scritta da Milo de Angelis, la tua poesia viene da lui definita come un’Alterazione. Era questa la tua iniziale intenzione? Trasformare continuamente la tua poesia (alterarla, appunto)?

L’Alterazione non è la metamorfosi, mutamento lieve e fiabesco che Ovidio ha immortalato nella sua opera. No, L’Alterazione è una potenza drammatica, a volte terribile, che ci getta in luoghi che non riconosciamo, che sono stati sconvolti nella loro essenza e non parlano più la nostra lingua. Ci conduce in zone ignote e insanguinate (il sangue ricorre spesso nei miei versi) e ci rende incapaci di costruire un ponte tra ciò che eravamo prima e ciò che siamo adesso: dopo il terremoto della visione, dopo l’attimo che “sposta l’asse”, veniamo scaraventati in una “lingua sconosciuta / che non conosce traduzione ma solo spavento”. Anche la persona più cara è sfigurata, si aggira in un territorio oscuro dove il suo volto si sgretola e viene portato via dalla fiumana.

Ancora ti guardo ed è l’abisso: i denti si staccano  /  il tempo dura il colpo / dell’onda sulla schiena e i rivoli si asciugano, / un estuario che non conduce ma secca [….] così si assottigliano tutte / le tue dita posate sul braccio destro, adesso / soltanto umide gocce di vapore, dissolte  /  in questo agosto torrido di rame”.

Come sta procedendo la promozione del tuo libro? Ci sono futuri progetti in ballo?

In questo momento sono molto concentrata sulla diffusione delle idee legate a questo mio libro e non penso ad altro. Mi impegno nell’organizzare quanti più eventi in presenza possibile, per recuperare un contatto diretto con i lettori, che si è ulteriormente disgregato a causa degli anni bui del Covid. Quando poi la poesia tornerà a dettarmi versi, la seguirò, come sempre.

Intervista a cura di Stefania Meneghella

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