Claudio Sottocornola ha pubblicato recentemente il suo nuovo libro Occhio di bue: un volume di ben 628 pagine di testo, 96 pagine di foto e un Dvd-Rom, allegato in omaggio, con 435 tracce MP3, stralci musicali delle sue lezioni-concerto con gli studenti e il pubblico più vario.


Com’è nato il tuo primo approccio alla scrittura e alla filosofia? Quando hai compreso che sarebbe stata la tua strada?

In realtà il primo risveglio, l’illuminazione è venuta dalla poesia, intorno ai quindici anni. La lettura di poeti come Pavese, Ungaretti, Montale, Neruda e Prévert, nei quali arte e vita erano un tutt’uno, mi spinse a coltivare la poesia come forma di espressione dal valore assoluto. Ero uno studente liceale, in quella metà degli anni ’70 così austeri e impegnati, e l’ispirazione a fissare con le parole le mie emozioni, il mio sentire profondo, divenne un must. Avevo visto mia sorella, di qualche anno più grande, farlo, e mi decisi a prendere dei quadernetti che riempivo di brevi composizioni di sapore post ermetico. Alcune di queste cose sono confluite nei due volumi pubblicati nel 2008 e 2009, “Giovinezza… addio” e “Nugae, nugellae, lampi”. In seguito vi è stato un passaggio alla filosofia quando, dovendo decidere che fare nella vita, mi resi conto che non volevo perdere nulla, e in qualche modo desideravo tenere dentro la mia esperienza l’orizzonte dell’umano nel suo insieme, e dunque che la filosofia, disciplina che per antonomasia si occupa del tutto, poteva essere il mio ambito di indagine.  

Come ti sei avvicinato invece alla ‘filosofia del pop’? Cosa rappresenta per te la cultura popolare?

Ho vissuto un’esperienza di full immersion nella musica da bambino, nei mitici anni ’60 che avevano una colonna sonora ludica e spensierata, piena di grande energia e dinamismo. Da adolescente ho avvicinato di più il cinema dei grandi maestri italiani (Antonioni, Visconti, Pasolini, la Cavani) e il teatro, dove fui folgorato da un Gabriele Lavia in stato di grazia nel “Misura per misura” shakespeariano. Da giovane adulto invece, intorno ai trent’anni, iniziando una collaborazione con un quotidiano e poi con l’agenzia romana Nea, cominciai a realizzare interviste-ritratto ai grandi personaggi della canzone e dello spettacolo in Italia, che erano stati un po’ i miti della mia infanzia, da Gianni Morandi a Rita Pavone, da Enzo Jannacci a Donovan, da Bobby Solo alle Gemelle Kessler, insieme ad altri, emersi in seguito, come Angelo Branduardi e Ivano Fossati, Fiorella Mannoia e Paolo Conte, Enrico Ruggeri e Mia Martini… Ecco, devo ringraziare per questa occasione che mi permise di riscoprire alla grande il fascino della musica pop, rock e d’autore, tanto che mi decisi un po’ più tardi, ad entrare io stesso in sala di registrazione per indagare il grande repertorio popolare italiano e realizzarne degli studi, delle interpretazioni che sono poi confluite in cd, dvd, pendrive e percorsi on line. L’esperienza più innovativa che credo di aver realizzato in quel contesto è però quella delle lezioni-concerto, che ho tenuto dal 2004 soprattutto in scuole, centri culturali e auditorium, spesso con la partecipazione di studenti liceali e universitari in qualità di performer, che duettavano sul palco con me, rivolte al pubblico più vario. Si trattava di percorsi a tema, dai teenager di ieri e di oggi ai cantautori all’immagine della donna, svolti a partire da una selezione di brani musicali e di una narrazione storico-tematica. Che cosa rappresenta allora per me la cultura popolare? Il grande serbatoio da cui è sempre nata la grande arte, dall’epica omerica all’opera lirica al teatro shakespeariano e, a partire dal ’900, la diffusione planetaria di questo fenomeno attraverso l’incontro fra produzione industriale e committenza di massa, che ha fatto del pop un contrassegno epocale, nel bene e nel male. Occuparmi di questo attraverso una forma di pop filosofia mi ha permesso di evitare le paludi dell’accademismo che si arrovella sulla teoresi della teoresi, per fare filosofia a partire dalle sfide dell’attualità e del sentire collettivo.

Parliamo del tuo ultimo libro Occhio di bue: innanzitutto, dove nasce questo titolo? Perché ‘Occhio di bue’?

L’’occhio di bue’ è quella potente lampada che si usa in ambito teatrale, e soprattutto musicale, per proiettare un fascio di luce concentrato e altamente definito sul performer in scena, cantante, ballerino o attore, che viene costantemente seguito da un operatore che ne illumina la presenza e i movimenti sul palco. Così diventa una sorta di immagine-metafora della sua centralità, del suo essere in quel momento manifestazione, cassa di risonanza dell’essere, una specie di microcosmo che assembla in sé un significato universale. E quindi l’‘occhio di bue’, in quanto ritaglia e definisce un soggetto come paradigmatico rispetto ad altro, sta a rappresentare efficacemente quel fenomeno che nel contesto della contemporanea cultura di massa noi chiamiamo successo, equivalente della gloria classica nello scenario postmoderno. Questo è infatti il tema che si dipana nel libro, il successo, come espressione di un riconoscimento che oggi alletta, per esempio, molti giovani che si propongono nei vari talent show e reality televisivi, ma che ha avuto in passato altre declinazioni, più elette, come la gloria nel mondo antico, espressione di una destinazione corale e collettiva del talento individuale, o quella cristiana, manifestazione di una più intensa partecipazione a un destino trascendente.

Com’è avvenuta invece l’idea per questo volume, e qual è il messaggio principale che vuoi trasmettere?

Nel 2016 ho pubblicato “Varietà”, un taccuino giornalistico con le mie interviste a grandi della cultura e dello spettacolo italiano realizzate fra il 1989 e il 1995, uno spaccato storico significativo, se consideriamo che molti di questi personaggi non sono più fra noi, da Wanda Osiris a Bruno Lauzi, da Milva a Mia Martini, da Raimondo Vianello e Sandra Mondaini a Carla Fracci, da Little Tony a Georges Moustaki… Nel 2018 è invece stata la volta di “Saggi Pop”, un corposo archivio di miei studi e interventi, pubblicati su varie riviste sia specialistiche che generaliste, relative alla popular culture novecentesca e contemporanea, dal cinema alla televisione, dalla musica alla moda, dai talent alla letteratura per ragazzi. Ebbene, mi sono accorto che le numerose presentazioni di questi due libri in giro per l’Italia, insieme ad altri interventi e lezioni-concerto, costituivano un vasto repertorio di temi e problemi legati non solo alla musica o alla televisione, ma all’intera nostra civiltà e, soprattutto, alla sua evidente crisi globale. Così ho voluto trasmettere con questo “Occhio di bue” il senso delle radici, di una memoria storica del bello che questo Paese ha prodotto nei suoi tempi migliori (dal dopoguerra agli anni ’60-’70 del ‘900) e, al contempo, denunciare un declino, che non è evidentemente solo artistico-musicale, ma epocale, e nel quale tuttavia possiamo continuare a operare per il meglio, individuando i semi di mutamenti che, nel lungo periodo, potrebbero generare un mondo migliore.   

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Lo hai definito come un vero e proprio ‘testamento spirituale’. Cosa vuoi lasciare più di tutto ai tuoi lettori?

Chi fa filosofia indaga il mondo a partire da aree di interesse. Il senso della vita infatti, di cui la filosofia intende occuparsi, si scopre interrogandosi su ciò che ci appassiona, ciò che per noi conta davvero, ciò che costituisce appunto il nostro interesse vitale. Tendenzialmente, a partire dalla filosofia hegeliana e dunque negli ultimi due secoli, l’approccio prevalente è stato storicistico, tanto che, per esempio, nelle scuole italiane non si insegna Filosofia ma Storia della filosofia, e questo ha portato non più a interrogarsi partendo dai problemi, come facevano gli antichi o i medievali, ma appunto ricostruendo l’ordine di quanto è stato detto in precedenza, con il rischio che il pensiero si areni nella mera ricostruzione storica o nella mera rielaborazione teorica delle precedenti teorie. Ritornare col pensiero alla vita vera, alla domanda di senso che la attraversa e che si manifesta nelle infinite forme della cultura e dell’arte contemporanea, ma soprattutto dell’esistenza sia delle masse sia delle singole persone, mi è sembrato fondamentale, irrinunciabile, in questi tempi di crisi e dai molti interrogativi. La popular culture, cioè la cultura, il modo di vivere e lottare quotidianamente di tutti noi, e non di pochi eletti, mi sembra il luogo privilegiato dove tentare la ricerca del senso. E la connotazione particolare che tale cultura ha assunto dal ’900 a oggi, incontro con la produzione industriale, mass e social media, videocrazia diffusa, impone una speciale attenzione a tale contesto, semplicemente perché è il nostro, nel bene e nel male. Allora, come scrivo nell’introduzione al libro, il pop è stato per me anche un po’ un espediente per parlare di ciò che mi interessa davvero, la vita e il suo senso, e l’occasione del pop, esattamente come una partita di calcio fa parlare di gioco di squadra, amicizia, rispetto e collaborazione, mi ha permesso di dire la mia, per esempio su valori, disvalori e ricerca di senso, con grande libertà, laddove senza l’ambiente pop forse sarei stato censurato o inascoltato.

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Hai futuri progetti in ballo? Puoi anticiparci qualcosa?

Forse ti sorprenderà un po’, perché di solito non rientra negli interessi di chi si occupa di pop filosofia. Ma un ambito di indagine che da anni associo, per esempio, alla mia ricerca in campo musicale, è quello relativo al sacro e alla sua crisi nel mondo contemporaneo. Penso infatti che un aspetto che caratterizza la cultura popolare sia proprio il rapporto con il sacro, come si vede dalle grandi tradizioni spirituali planetarie, e, per esempio, dalla stessa matrice popolare del testo biblico, e dunque ritengo oltremodo significativa la perdita della ritualità, del senso della festa, dell’appartenenza a una comunità o a una tradizione che caratterizza la nostra società occidentale. Dunque attraverso collaborazioni con riviste e contesti specialistici sviluppo riflessioni e considerazioni teoretiche che vorrei poi antologizzare in un libro. Accanto a ciò però continuo a lavorare ad un progetto di raccolta di altre interviste che ho realizzato in passato a grandi del teatro, della danza e della musica, soprattutto per alcune radio, e che vorrei raccogliere in silloge. Infine, un’altra pista del mio lavoro è quella autobiografica e, anche qui, sto lavorando a una selezione di testi che hanno a che vedere con la memoria famigliare. Non riesco mai a distinguere tra ricerca, progettazione e vita, e di questo vado fiero.

Intervista a cura di Stefania Meneghella

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