Aung San Suu Kyi, quando credere diventa errore


 Tra le infinite umanità che costellano infiniti cosmi, ci sono donne che restano cristallizzate nel tempo per coraggi mai morti, per forze che non riescono a risorgere perché esistono già.. esistono in tutto ciò che fanno, in tutto ciò che toccano. Sono le donne che sogniamo di essere, sono le donne che sogniamo di incontrare, quando il mondo ci ruota attorno e ci sentiamo persi. Si vorrebbe essere come loro, sentire nell’anima la stessa vita a cui loro non rinuncerebbero mai.. sentire nell’anima gli stessi ideali. Ci sono ideali per cui vale la pena lottare: sono gli ideali che ci portano ad essere chi siamo, che ci portano a camminare in strade mai conosciute prima, prima di diventare la persona che sognavamo. E allora continuiamo… continuiamo a stringere i pugni per realizzarli, questi ideali, per salire sulla cima di un monte ed urlare al mondo intero il nostro valore, il valore in cui da sempre abbiamo creduto. Credere non è mai stato un errore: è stato scritto sul fondale della Terra al momento della sua creazione. Credere, così come lottare. Lottare per ciò in cui si sogna, per ciò che si vorrebbe trasformare, che si vorrebbe amare. Credere non è mai stato un errore, eppure a volte credere ci porta a sbagliare. Ci sono state anime, anime di donne, che hanno rinunciato a tutto pur di cambiare un mondo che non amavano ma in cui credevano; ci sono state anime, anime di donne, che hanno messo a dura prova la vita di chi amavano per dimostrare all’umanità di poter essere speciali. Credere non è mai stato un errore, ma cosa accadrebbe se chi crede si trasformasse in errore? Errore per chi ama davvero, per chi sogna, per chi vive in una sfera di nostalgia, e cerca, e non trova, e vuole la vita… ma non c’è, la vita non c’è mai, non ci sarà mai una vita per chi crede ma non ama. Mai.

Tra queste donne che credono, il cui coraggio e la cui forza sono ancora impressi in infiniti cosmi, spicca con maggiore rilievo Aung San Suu Kyi, leader del partito birmano Lega Nazionale per la Democrazia e uno dei più importanti simboli a livello mondiale della resistenza pacifica contro l’oppressione. La sua è considerata una tra le vite più coraggiose mai esistite sin dal 1947 quando, a soli due anni, perde suo padre, uno fra i più grandi eroi dell’indipendenza birmana. Dopo aver trascorso l’infanzia in India con la madre, ambasciatrice del Myanmar a Delhi, nel 1964 intraprende gli studi di filosofia, politica ed economia presso l’università di Oxford, dove conosce l’uomo della sua vita, Micheal Aris, da cui diviene mamma di due figli, Alexander e Kim. La sua è inizialmente la famiglia che tutti sognano di avere; restano per qualche anno insieme, ad Oxford, mentre le idee della donna iniziano ad alimentarsi e a condurla verso il desiderio di cambiamento, un cambiamento che avrebbe portato alla Libertà del suo popolo, allora vittima del regime dittatoriale.

Nel 1988, Suu Kyi si vede costretta a tornare nel suo Paese di origine Myanmar (Birmania) per qualche giorno, per prendersi cura della madre molto malata, mentre la sua famiglia resta a casa ad attenderla.

La attenderà per sempre la sua famiglia, attenderà una madre e una moglie che, ai loro occhi, ha scelto la sua Patria. Attenderà una donna che ha deciso di credere a tal punto da smettere di amare, e il mondo diverrà per loro inferno, mentre il mondo per lei diverrà lotta.

Lotta che inizia quando, in un momento critico per il Paese, ispirata dalla protesta non violenta di Martin Luther King e Mahatma Gandhi, decide di organizzare manifestazioni in tutto il Paese per chiedere al governo riforme democratiche ed elezioni libere. Fonda così la Lega Nazionale per la Democrazia. Il regime, infastidito dall’operato della donna e della sua organizzazione, decide di condannarla agli arresti domiciliari, salvo che non decidesse di lasciare la Birmania. Lei rifiuta. E’ pronta ad essere rinchiusa in una casa che non conosce, una casa che non è casa sua, pur di portare avanti il suo ideale. Due anni dopo si tengono le elezioni: la Lega Nazionale per la democrazia ottiene un successo elettorale, ma il regime militare decide di riprendere il potere con la forza, non accettando la vittoria della donna che ha ottenuto un grande sostegno da parte della popolazione birmana. Nel 1991, Suu Kyi vince il premio Nobel per la Pace, premio che ritira personalmente suo figlio Alexander, premio che utilizza per costruire nel suo Paese un sistema di istruzione e sanitario a favore del popolo. Dopo cinque anni, le viene permessa la semilibertà; è libera cioè di circolare nel proprio territorio ma non di viaggiare.

<<La scelta è tua. Se lasci la Birmania, non potrai ritornare>>, le disse il regime.

E lei sceglie.

Lei sceglie sapendo che dall’altra parte del mondo qualcuno sogna ogni notte un suo abbraccio, il desiderio di amarla, la volontà di vederla.

Lei sceglie sapendo che due ragazzi che conservano il suo stesso sangue immaginano il suo volto, che resta cristallizzato in infiniti cosmi.

Lei sceglie, anche quando nel 1999, suo marito scopre di essere ammalato di cancro senza speranze. Prova a raggiungerla, l’uomo, senza riuscirci; il suo ultimo desiderio è rivederla, ma non accade. Impregnato di bontà e pazienza, non le chiede mai di ritornare ad Oxford perché sa che questo significherebbe per lei l’impossibilità di ritornare in patria, la rinuncia alla sua lotta. E’ il mese di marzo: Micheal ormai sta morendo. Il figlio Kim chiama sua madre. Lei gli risponde affranta: <<cerca di capirmi>>. E lui si rivolge al padre con le parole: <<la mamma ti saluta>>. Suu Kyi e Micheal non si vedranno mai più; poco dopo lui vola via per sempre, e lei non si presenta il giorno del suo funerale.

Lei sceglie anche quel giorno. Mentre suo marito sta morendo, lei è intenta a preparare un discorso e a compiere i suoi doveri di attivista.

I figli, già privi di madre, restano anche privi di padre. Sono soli.

Lei sceglie.

Tre anni dopo, l’ONU fa pressioni sul regime birmano, affinché le conceda una maggiore libertà. Finalmente la donna può circolare liberamente nel suo Paese. Nel 2003, accade però un evento spiacevole per la Birmania, poiché i militari, in occasione di uno spostamento della donna al fianco di molti sostenitori, decidono di sparare sulla folla uccidendo tantissime persone. Grazie alla prontezza del suo autista, San Suu Kyi riesce a salvarsi, ma da quel giorno il regime dittatoriale la costringe nuovamente agli arresti domiciliari senza alcuna ragione. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea continuano a fare pressioni sui militari con il fine di ottenere la sua liberazione, ma i loro appelli risultano inutili e, nel 2009, con un discusso referendum popolare, i militari consolidano il loro potere nel Paese estromettendo dalla vita politica la Lega Nazionale per la Democrazia.

Solo l’anno dopo, mentre i figli hanno perso speranze, e hanno smesso di attendere, dopo innumerevoli appelli, San Suu Kyi è rimessa in libertà il 13 novembre 2010, potendo finalmente battersi per le rivendicazioni del suo popolo, utilizzando i precetti di Gandhi della non violenza per far uscire la Birmania dalla difficile situazione in cui si trova.

La polizia sposta le barriere davanti alla casa, e lei esce all’aria, con una maglietta rosa e un fazzoletto appallottolato tra le mani, con un volto fragile e sofferente, dimostrando all’intero mondo che anche lei è umana, che anche lei crede e ama, che anche la sua vita deve essere vissuta. Ha messo un fiore tra i capelli e, restando dietro il cancello, ha salutato la folla in festa. Sotto il sole tropicale, sono in migliaia ad aspettarla. <<Dobbiamo lavorare insieme, all’unisono, per raggiungere il nostro obiettivo>>, dice poi, acquistando nuovamente il volto di chi crede e lotta.

Ha scelto, questa donna.

Ha scelto di essere una donna che sceglie, una donna che crede in ideali che superano affetti, in lotte che superano abbracci.

Ha scelto di lottare per la Libertà. E la sua libertà è ora tra le sue mani; è tra le sue mani e vorrebbe non perderla, vorrebbe non perdere nemmeno la sua famiglia, ormai cristallizzata in nostalgia, in speranze perdute, nella ricerca dell’amore.

I due figli, Alexander e Kim, oggi sono due uomini che hanno scelto strade diverse. Il più grande, Alexander, vive ora negli Stati Uniti, nell’Oregon, dove ha studiato Filosofia e si è isolato in una comunità buddista. Il più giovane, Kim, è rimasto ad Oxford e vive in una casa galleggiante lungo un canale. I due hanno perso qualsiasi contatto con una donna che per loro non è mai stata madre; hanno deciso di vivere autonomamente, e forse così vivranno sempre.

Ma per Aung San Suu Kyii il ritorno nella città che l’ha ospitata per i suoi studi e per la sua vita di madre e moglie, di donna non ancora leader mondiale, rappresenta il momento più intenso.

Oggi ha 70 anni, e il suo compleanno l’ha trascorso tra le mura del vecchio St. Hughes College, che le consegnò la laurea e che ora la ritrova per insignirla del dottorato ad honorem in Legge.

Oggi ha 70 anni, ed è sola.

I suo figli hanno scelto.

Hanno scelto sapendo che dall’altra parte del mondo c’è una donna che sogna ogni notte un loro abbraccio, il desiderio di amarli, la volontà di vederli.

Hanno scelto sapendo che una donna che conserva il loro stesso sangue immagina i loro volti, che restano cristallizzati in infiniti cosmi.

Oggi ha 70 anni e nei suoi occhi traspare malinconia. Vive nella città che ha costruito il suo futuro, nella città in cui numerosi studenti possono sognare e credere, possono realizzare i loro ideali. Vorrebbe dire loro che credere non è mai un errore, che è stato scritto sul fondale della Terra al momento della sua creazione. Credere, così come lottare. Vorrebbe dire loro che è sopravvissuta solo grazie alla sua tenacia, al suo desiderio di cambiare il mondo.

Ma.. chiusa nella sua casa, sola, inizia a credere di essersi trasformata in errore. Errore per chi ama davvero, per chi sogna, per chi vive in una sfera di nostalgia, e cerca, e non trova, e vuole la vita… ma non c’è, la vita non c’è mai, non ci sarà mai una vita per chi crede ma non ama.

Oggi il mondo conosce Aung San Suu Kyi come premio Nobel per la pace, icona della democrazia, uno dei più importanti simboli a livello mondiale della resistenza pacifica contro l’oppressione, leader di un partito politico che, a novembre 2015 ha vinto le elezioni in Myanmar, segnando un periodo di svolta per il Paese e portando la Libertà e la Democrazia per cui tanto ha lottato.

E’ questo per il mondo.

Ma.. per l’umanità, Aung San Suu Kyi è soltanto una donna che ha creduto ma non ha amato, ed ora.. ora che ha perso tutto, la sua vita è trasformata in pentimento, in ricerca di ciò che è stato, ricerca di ciò che è amore.

 E’ vero, credere non è mai un errore: è stato scritto sui fondali della Terra al momento della sua creazione. Ma ci sarà mai una vita per chi crede senza amare?

Il momento della verità arriva solo quando il nostro Sole è in procinto di tramontare, e ci rendiamo conto che l’alba non ha mai brillato di luce propria ma solo di una luce falsa e artificiale, la luce dei nostri pensieri, dei nostri ideali, la luce che ci ha allontanato dal nostro cielo e che ha costruito aurore fatte di lotte, mostrando ad altri ciò che era urgente, invece di ciò che era importante, mentre le stelle a noi vicine ci avevano guardato e avevano smesso di brillare. Troppo falsa la nostra luce per illuminare anche loro; si era così creato un cielo fatto di buio, un cielo fatto di attimi perduti, di affetti mai ritrovati, di nostalgie costruite.

 E ci renderemo allora conto che credere non è mai un errore, solo quando si lotta per l’amore.


Articolo realizzato da Stefania Meneghella

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