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Book: Il giudizio

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Giovanni 10, 11-16

In quel tempo, Gesù disse: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore”.

La figura evangelica del buon pastore, ci rimanda fin da subito all’immagine del sacerdote, il quale, come Gesù, accetta di offrire la sua vita per gli altri. Rimanere fedeli a sì alta missione, costituisce per lui un lento martirio quotidiano, per assoggettare volontà e intenzioni proprie, all’azione del Maestro divino: questa unione è alla base della sua vocazione, dove la carità rappresenta la pienezza della legge, ed il mondo con le sue creature divengono il soggetto principale delle sue premure. Il sacerdote si muove in Dio per il bene della comunità e delle persone che incontra lungo il cammino. Il sacerdote deve far rievocare la sollecitudine del buon Samaritano quando, quest’ultimo, con spirito di prontezza, soccorre lo straniero incappato nei briganti. Essere sacerdote è il più alto compito che Dio abbia assegnato ad un essere umano su questa terra: imprimere in lui l’immagine di Suo Figlio Gesù. Tutto questo, e molto altro ancora, è racchiuso nella vocazione al sacerdozio, e chiunque riceva questo ministero porta in seno il difficile compito di essere all’altezza di tale grande chiamata.
Lasciamo ora la parola a frate Damiano La Manna, priore dei Padri Carmelitani Scalzi del convento di Treviso.

 

D: Padre Damiano, ci può raccontare la storia della sua chiamata al sacerdozio?

R: Innanzitutto la chiamata coincide con la chiamata alla vita cristiana. Sono nato in Sicilia, negli anni 60. La mia mamma e il mio papà impostarono il modello classico e collaudato di famiglia; ingegnere il papà, casalinga la mamma, la sorella più grande e il figlio maschio, con il nome del nonno! Quanto basta! Città di residenza, Termini Imerese, in provincia di Palermo, cittadina fiorente e con un polo industriale sviluppato.
I due doni iniziali sono stati la chiamata alla vita e la certezza della famiglia. E la fede? Si potrebbe dire: “bene, grazie!”. Una fede fondata sui riti e il richiamo alla morale cattolica. Guardando la mia famiglia posso rintracciare il miracolo che ha custodito i miei genitori nel dopo Concilio Vaticano II, anni in cui il rinnovamento liturgico e dottrinale sul versante ecclesiale e le turbolenze sociali ed economiche (penso all’attacco ai cattolici sul divorzio e sull’aborto), avrebbero potuto distruggere ciò che invece è rimasto vivo in casa, senza cadute conservatrici o sbilanciamenti consumistici e corrotti. Tuttavia la presa di coscienza di una fede “in presa diretta” con la vita accade negli anni di università. È lì che il Signore ha plasmato di nuovo la buona pasta di cui ero fatto. Con mia sorella abbiamo vissuto forti esperienze di condivisione e comunione nella Chiesa, nell’Università, nella carità con i piccoli e i poveri; e poi il gusto per la bellezza nell’arte, nel contatto con la natura, nella cultura respirati in famiglia: tutto in un continuo paragone con la vita di Cristo in me e negli amici.
Guardandomi dentro, a fronte di una moltitudine di doni, ho sempre avuto una grande pena, quella di non corrispondere ai doni ricevuti con una volontà determinata; un’ apatia accidiosa mi ha rallentato enormemente nel compiere i miei doveri di figlio, di studente, di amico, senza passioni e capacità di progettare un futuro di uomo realizzato. Tuttavia mi riconosco una spontanea disponibilità all’aiuto agli amici e all’ascolto. Così  si è via via rafforzata la necessità di rispondere con ciò che avevo, il mio unico bene, la mia stessa vita, e non certamente le mie opere, a Colui che mi aveva donato tante possibilità di guardare il mondo con il cuore cristiano. L’unico problema diventava: come fare?
Così, nel 1991 sono entrato in crisi. Lo studio che non arrivava al traguardo (i quattro esami che non superavo nella Facoltà di Giurisprudenza), e un progetto “provvidenziale”. La famiglia che era il giudizio per me invalicabile, di arrivare ad essere “qualcuno”; la fidanzata che poneva la serietà delle scelte e l’impegno di un “per sempre” al quale non mi sentivo in fin dei conti pronto; il servizio militare sostitutivo che mi bloccava per un anno e che dovevo fare per forza. Assegnato a seguire l’azione del parroco del quartiere popolare della Vucciria a Palermo come obbiettore di coscienza, a contatto con una umanità ferita (disoccupazione, droga, mafia, carcere, evasione scolastica, deviazioni morali di ogni genere), accentuò il disagio tra un progetto ordinario (ricerca di lavoro, matrimonio e famiglia), e un progetto provvidenziale. Mi affascinava molto la scelta di laici e consacrati che conoscevo e che vivevano di amore gratuito .
In una messa feriale il padre celebrante, un carmelitano veneto che commentava il vangelo nella giornata per le vocazioni si aprì una breccia che generò una profonda inquietudine(non sul momento): “… e non credere che anche se hai la fidanzata accanto, il Signore non può chiamarti a fare con Lui un altro progetto per la tua santità?”. La ferita di queste parole si fece sentire in modo inderogabile qualche mese dopo. E qui che cominciai ad aprire al sacerdote carmelitano fino a non potere più eludere la domanda che esprimo con le parole di Teresa d’Avila: “Sono nata per te, per Te è il mio cuore, dimmi che vuoi da me, Signore!”
Se la scelta di dare tutta la vita, lo Spirito, l’anima e il corpo, al Signore della vita, come dice Teresa,è visibile in persone veramente felici, perché non io?
Così da una condizione di difficoltà ad essere felice a causa del mio io così meschino,sopraggiungeva una via nuova e inaspettata. Dopo un anno e mezzo ho iniziato il cammino nella famiglia Carmelitana. Due anni a Trento, lontano dagli affetti familiari, e i primi voti di povertà, castità e obbedienza nel 1994; sei anni a Brescia con gli studi di Teologia, i voti definitivi il 3 ottobre del 1999 e nel giugno del 2000, anno giubilare sono stato ordinato sacerdote insieme a tre fratelli che, come me hanno percorso la strada della donazione al Signore nella famiglia legata alla Vergine Maria come Madre e Modello della nostra vita.
Senza dire che questa strada mi ha portato anche a finire l’università con la Laurea in Legge nel 1995. Diceva mio papà che il Signore gli aveva fatto un regalo personale: vedere la realizzazione del progetto di studio del figlio,  smentendo il facile giudizio che, in fondo, la scelta di entrare nel Carmelo era motivata da una fuga dalle  responsabilità.

D: Chi è, secondo lei, “un buon pastore”?

R: Le parole del buon pastore si legano alla distinzione che Gesù fa’ tra il Pastore e il Mercenario. Ciò che il Buon Pastore è nella Chiesa, il sacerdote, corrisponde in tutto e per tutto al genitore rispetto ai figli, a cominciare dal principio elettivo che è sostanza di vocazione e missione nella Chiesa.
Il Pastore: egli è un “chiamato” e non deve mai dimenticare l’origine del suo personale carisma/ministero. Le modalità e la durata del ministero si incarnano nel dono affidato a ciascuno: le circostanze e le relazioni con i fedeli ti portano esse stesse a maturare la portata e i destinatari diretti della tua missione. C’è un orizzonte da tener sempre in conto: che il Signore Gesù, inviando i discepoli, li spinge fino agli estremi confini della terra, ed è così che il pastore è sempre un profeta non ascoltato in patria, è sempre uno che indica di non chiudersi ai propri o altrui risultati, che sempre guarda al di là e cerca la pecorella perduta … conduce all’altra riva! In definitiva chiede sempre di guardare le cose di lassù.
In questo modo la passione ecclesiale resta una ferita sempre aperta, e la missione personale è libera di prendere e lasciare il gregge senza attaccamenti e progetti che risultano troppo umani e limitanti. Se il Signore mi ha chiesto di fare il parroco per otto anni e poi, in un solo giorno mi ha dato un altro compito, e oggi mi chiede di fare un’altra missione, se è vero che umanamente questo porta ad un continuo distacco da persone e progetti, tuttavia mi fa crescere nella coscienza che Lui è fedele e non lascerà che il gregge resti senza pastore e che il prete è strumento di un progetto inconoscibile ai più. In fondo quando Gesù viene Crocifisso come un malfattore ci ricorda al vivo che il sacerdote quando lascia un incarico per obbedienza al suo diretto superiore, spesso viene trattato o giudicato come se fosse un malfattore o un traditore!

D: Chi sono i “mercenari” del nostro tempo?

R: Quando Gesù tira fuori una categoria di persone, e le mette in rapporto con sé, pensiamo ai farisei, gli scribi, i pubblicani, le prostitute …, non sta parlando di qualcun altro, ma di me, di ciascuno che ascolta la Sua Parola. Quando io perdo di vista l’interezza del mio rapporto con Lui, allora vanificando la Parola eterna del Padre, degrado me stesso alla categoria descritta e giudicata dal Vangelo.
Quante volte perciò mi trovo a gestire un incontro con una persona sfruttandolo a mio uso, strumentalizzandolo ad un mio progetto, prendendo indebitamente dei doni che sono per il Signore per gratificare me stesso, o lo carico di pesi che neanche io so portare su di me? La vera carità pastorale si incarna in ogni momento, in ogni incontro, in ogni scelta, perché tutto sia orientato al mistero della grandezza e bellezza di Dio.

D: Come può un sacerdote testimoniare il suo amore per Dio fra la gente?

R: “Fate questo in memoria di me”. Queste parole sono il principio per cui esiste il sacerdote nella Chiesa; la vita sacerdotale in ogni spazio di tempo è la realizzazione concreta della chiamata a spendersi eucaristicamente per i fratelli. Essere cioè memoria vivente della presenza del Signore nel mondo. Poco importa se ciò ha una utilità o è vissuta nel nascondimento, poco importa se si mette in luce o resta in penombra. Sempre presente nel sacerdote è la propria indegnità per il “troppo grande amore” che è chiamato a donare, senza poter contraccambiare con le proprie capacità questo regalo di Dio. Mi viene in mente padre “3P”, il Beato Padre Pino Puglisi, e il suo spendersi nel quartiere di Brancaccio a Palermo, dove giorno per giorno ha offerto sé stesso sacrificando la vita per i suoi parrocchiani. Le 3 “P” del sacerdote possono essere descritte così: Padre, Pane, Perdono: Come il Padre che è nei cieli, come il Pane che è il Figlio che si dona sempre e tutto, come il Perdono che è l’Amore Misericordioso che vive nello Spirito della Chiesa e si abbassa fino all’ultimo e al più piccolo dei figli.

D: Come si può parlare di Dio a coloro che non sentono l’esigenza di questo incontro?

R: Quando passavo per benedire le case nella parrocchia di Santa Teresa di Gesù bambino a Verona, spesso percepivo di non essere gradito. Oppure nelle famiglie più lontane venivo accolto con maggiore onore di tante famiglie praticanti. Spesso i non cattolici, come gli Ortodossi o alcuni Musulmani, accoglievano il dono della benedizione con grande partecipazione. C’è una necessità di annuncio anche ai lontani perché un piccolo gesto di amore vale sempre. Anche quando non è accettato. La sicurezza che Dio c’è e parla al cuore di ogni uomo, è una ricchezza e una gioia. Talvolta il rifiuto è salutare anche per il sacerdote perché gli fa gustare l’amarezza della non accoglienza. Proprio come al Signore Gesù nei nostri confronti quando bussa alla porta del nostro cuore e non gli apriamo.

D: Perché, a suo modo di vedere, la chiesa cattolica suscita poco interesse fra i giovani?

R: Io capovolgerei la domanda: perché i cristiani praticanti hanno un interesse per la Santa Madre Chiesa così poco affascinante per i loro giovani? Sono convinto che alla base della lontananza sia la rettitudine e coerenza presente nei giovani. Essi si scandalizzano di ciò che non vedono in noi grandi! Credo che l’esempio di Giovanni Paolo II, oggi santo, nelle giornate mondiali della gioventù, abbia mostrato la capacità di attirare i giovani a Cristo e alla Sua Chiesa. È lo spirito di infanzia che tiene in piedi la Chiesa.
In realtà la Chiesa cattolica suscita poco interesse tra gli uomini, e in particolare tra i battezzati. Mi sembra che i giovani, nella loro struttura di coerenza e consequenzialità, non siano indifferenti. Manifestano il loro distacco da tutti quelli che non guardano alla totalità della persona e alle necessità di fedeltà assoluta che l’essere uomini e donne richiede: se gli agenti educatori, dai genitori ai catechisti, ai preti, mostrano di avere fede a parole e non con la vita, i figli non se la bevono!
La popolarità del Cristianesimo rischia di essere inversamente proporzionale alla sua condizione fondamentale: dare la vita per gli amici, come ha fatto Gesù. Un esempio elementare: se il figlio non va’ a messa il genitore è angustiato; ma se il figlio vedesse che il giorno di domenica diventa un tempo di intensa comunione con Dio e con i fratelli, il figlio anche non partecipando, parteciperebbe all’avvenimento cristiano nei fatti. Vedrebbe cioè realizzato il Regno dei Cieli attraverso la comunione dei suoi genitori. E poi, come un ragazzo mi ha detto poco tempo fa’, “i miei amici non frequentano la Chiesa perché hanno capito che per essere cristiani veri bisogna soffrire, e i miei amici non vogliono soffrire!”. A commento di questa affermazione aggiungerei che i genitori insegnano ai figli che non si deve soffrire attraverso la fobia per le sconfitte.

D: Ci spieghi il passo evangelico di Giovanni 10-16:
“E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore”.

R: Nell’ambiente delle prime comunità giudaiche che accolsero il Cristianesimo, le pecore fuori dall’ovile erano i pagani, gli altri. San Paolo, l’apostolo delle genti, sarà il grande interprete di questo passo evangelico. In Italia il fenomeno della conversione degli adulti che provengono da altre religioni o dall’ateismo, comincia a farsi sentire sempre di più, anche se non fa notizia.
Sono delle grazie particolari all’interno della Comunità Cristiana. Cinque anni fa’ una donna ebrea argentina di cinquantasette anni, Marta, attraverso il percorso di conversione con una amica e collega di lavoro, ha bussato alla mia porta ed ha chiesto il battesimo. La sua maturità e le intuizioni umane e spirituali di cui era dotata, mi hanno confermato la verità profonda studiata nei libri di teologia e descritta nella vita di tanti santi: tutti gli uomini e donne del nostro amato mondo hanno come destino di incontrarsi con il loro Salvatore. Alcuni uomini come condizione di vita, dalla nascita, sono all’interno della Comunità; altri per un incontro successivo; altri ancora dai semi di verità contenuti nelle altre religioni; altri in questa terra non lo incontreranno mai.
Per comprendere in modo profondo questo mistero mi rifaccio alla lettura del Prologo di Storia di un’anima di Santa Teresina che, con l’analogia con la natura, dimostra il grande progetto di Dio.

“Come il sole rischiara allo stesso tempo i grandi cedri e ogni piccolo fiore, come se ciascuno fosse solo sulla terra, così Nostro Signore si occupa in particolare di ciascuna anima, con tanto amore come se fosse unica al mondo”.
“E come nella natura tutte le stagioni sono regolate in modo da far sbocciare nel momento stabilito anche la più umile pratolina, così tutto è regolato in modo da corrispondere al bene di ciascuna anima”.

Ringraziamo padre Damiano La Manna per essersi intrattenuto con noi e aver fatto luce sul difficile compito del pastore di anime, nel mondo di oggi.

Intervista realizzata da Martina Castellarin

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